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Nel mio laboratorio di luce nasce un trittico liquido, un sogno che scivola oltre il reale. Tre volti, tre stadi dell’anima umana, immersi in un surrealismo che sussurra il nome di Dalí come un’eco distorta.

Nel primo volto, gli occhi si aprono e si chiudono come finestre sull’ignoto: palpebre tremanti che osservano il mondo che cambia troppo in fretta. C’è sgomento, un respiro trattenuto davanti alla ferita della natura, come se il volto stesso cercasse di capire cosa stia svanendo.

Nel secondo, l’immagine esplode in orrore. Paura. Rabbia. I tratti si deformano, si sciolgono, gridano silenziosamente contro ciò che siamo stati capaci di fare — e contro ciò a cui continuiamo a non porre rimedio. È un volto che accusa e supplica nello stesso istante.

Il terzo volto chiude il cerchio. Colature di colore scorrono come lacrime astratte, riportando la memoria della bellezza sospesa, fragile, surreale. Una grazia che resiste anche quando tutto intorno si sfalda.

In tutti e tre i volti, la liquefazione domina. È simbolo della lenta scomparsa dell’umanità — non una morte improvvisa, ma un continuo sciogliersi delle nostre forme, dei nostri valori, delle nostre memorie. Un ricordo che si dissolve mentre tenta disperatamente di restare vivo.